BOY N THE (HOLLYW)HOOD. Il Cinema di John Singleton dagli esordi ad Abduction

di Fabio Migneco

 

(foto da http://filmcrithulk.files.wordpress.com/2011/09/john-singleton.jpg)Tra le carriere più singolari del recente cinema hollywoodiano c’è senza dubbio quella di John Singleton, ormai comunemente ritenuto solo una brillante promessa non mantenuta.

Forse c’è qualcosa di vero in questo, ma se si guarda con maggiore attenzione alla sua filmografia ci si accorge che è un facile ed ingiusto schematismo, un etichettare un regista che si pensa nato come indipendente e arrabbiato e poi finito asservito alle logiche del sistema americano, prettamente commerciale, del fare cinema.  In realtà, come vedremo Singleton entra da subito a far parte del giro grosso degli studios e il suo più grande cambiamento rimane forse quello fisico (da segaligno e occhialuto ventenne degli esordi a quarantenne pompato e dal cranio rasato, stranamente simile al Tony Todd di Candyman e della saga Final Destination). Perché anche nei suoi titoli più commerciali non manca mai il suo tocco e, tra le righe, una sorta di poetica, sia pure a volte in tono minore, che comunque fa la differenza.

John Daniel Singleton nasce a Los Angeles, zona South Central, il 6 gennaio del 1968.

Mentre studiava cinema e scrittura per film e televisione alla USC, la University of Southern California, vinse tre premi per alcune sue brevi sceneggiature e fu assunto alla Creative Artists Agency. Il suo primo copione per un lungometraggio fu comprato dalla Columbia che, talmente entusiasta della storia, acconsentì a farla dirigere dallo stesso Singleton, allora ventitreenne, investendovi sette milioni di dollari. Fece così il suo debutto ufficiale nel mondo del cinema con l’acclamato Boyz N the Hood, che guadagnò lodi entusiaste al Cannes Film Festival di quell’anno e conquistò critica e pubblico statunitense durante tutta l’estate dell’uscita. L’Academy of Motion Picture Arts and Sciences non poteva restare indifferente e il film, o meglio, Singleton ottenne ben due nomination agli Oscar: una per la migliore sceneggiatura e l’altra per il miglior regista. Singleton divenne così in un colpo solo il primo afroamericano mai candidato all’ambita statuetta, nonché il più giovane in assoluto (spodestando addirittura Orson Welles, candidato a 26 anni per Quarto Potere nel 1942).

Con nel cast una serie di attori destinati a ottime carriere quali Cuba Gooding Jr., Laurence Fishburne, Morris Chestnut, il rapper Ice Cube, Nia Long, Angela Bassett, Regina King, Singleton dà prova di grande abilità sia a livello registico che di scrittura con un film che è un atto di denuncia, un pugno nello stomaco ancora oggi a distanza di vent’anni. Ambientato proprio a South Central nel 1984, il film racconta la dura vita per i giovani afroamericani del ghetto, uno dei tanti degli USA alle prese con la povertà, la droga, la violenza armata delle bande per le strade, e con la brutalità della polizia. S’intrecciano le storie di tre adolescenti. Uno solo riesce a sottrarsi a una fine predestinata, grazie al padre, che gli insegna l’autodisciplina, l’affrontare le responsabilità, l’orgoglio nero. Proprio come i genitori del regista hanno fatto con lui, che non mancò di ringraziarli pubblicamente all’epoca.

Con un esordio così clamoroso era impossibile ripetersi, almeno al secondo film, e infatti Singleton scelse intelligentemente di percorrere altre vie, anchehttp://www.nextmovie.com/wp-content/uploads/2011/09/john-singleton500.jpg per non essere visto come un clone minore di Spike Lee. Michael Jackson lo sceglie per dirigere il videoclip di Remember the Time, con Eddie Murphy, Iman, and Earvin “Magic” Johnson. Nel 1993 scrive e dirige Poetic Justice, commedia sentimentale con venature drammatiche, che vide l’esordio come attrice di Janet Jackson, al fianco di un altro rapper, Tupac Shakur. E’ la storia di una giovane estetista, Justice, che vive a Los Angeles e attraversa una forte crisi psicologica a causa della recente morte violenta del suo ragazzo. Il giovane postino Lucky le fa la corte pure essendo fidanzato e padre. Lucky scopre che la sua attuale compagna si droga mettendo in pericolo la vita della loro bambina e decide così di portare sua figlia dalla nonna, organizzando un viaggio in auto con Justice ed i suoi migliori amici Iesha e Chicago. Lungo il tragitto tra Justice e Lucky sboccia finalmente l’amore ma le cose non andranno così bene come sperato. E nemmeno le critiche, alcune non tenere con Singleton, a differenza del box office che, sia pur inferiore a quello del film d’esordio, fu soddisfacente e rese contenta la Columbia che diede carta bianca al regista per un terzo film, ben più riuscito.

Higher Learning, noto in Italia come L’Università dell’Odio, esce nel 1995 ed è un lucido ritratto della società americana dell’epoca vista attraverso la lente del microcosmo universitario e dei suoi campus, un’altra realtà che Singleton conosce bene e che utilizza per parlare di integrazione e ancora una volta di violenza, ma anche di cultura e di insegnamento. Tra gli attori ritroviamo Fishburne e Ice Cube, affiancati da un cast di giovani emergenti, come Omar Epps, che da anni è Foreman in Dr. House, Kristy Swanson, il qui bravissimo Michael Rapaport, Jennifer Connelly, Jason Wiles, Tyra Banks, Cole Hauser e un altro rapper-attore, Busta Rhymes. Il film racconta le vicende scolastiche e umane di Malik, Kristen e Remy, tre matricole universitarie che entrano a contatto in maniera molto prepotente e inaspettata con un mondo fatto di razzismo e pregiudizi.
Ma è nel 1997 che Singleton firma quello che insieme al suo esordio è il suo miglior film, Rosewood. Scritto da Gregory Poirier, è basato su fatti storici realmente accaduti. Nel 1923 a Rosewood, cittadina della Florida, vive una piccola comunità di colore, i cui componenti sono oppressi dai bianchi. La tensione esplode quando una donna, mentendo, dichiara di essere stata violentata da un nero e l’odio razzista fa sì che i bianchi si facciano giustizia da soli uccidendo chiunque abbia la sola colpa di essere nero. Un umile commerciante di idee antirazziste e un afroamericano forestiero appena giunto in città cercano di salvare la comunità innocente. Forte di un cast di grandissimi attori di prima e seconda fila quali Jon Voight, Ving Rhames, Don Cheadle, Bruce Mcgill, Loren Dean, Paul Benjamin, Akosua Busia (sua ex moglie con la quale ebbe una bambina), Catherine Kellner, Elise Neal e Robert Patrick, Singleton dà http://cinema-tv.corriere.it/multimedia/cinema/2010/12/013/locandina.jpgsfogo a tutta la sua bravura tecnica come regista, in una pellicola con echi western e dal sapore classico, fatta di location di grande bellezza e movimenti di macchina ponderati e sontuosi. Peccato però che al successo di critica non seguì quello di pubblico, tanto che nel resto del mondo questo resta l’unico film introvabile del regista, compreso qui da noi, dove non è mai uscito in dvd e lo si è visto di rado solo in qualche oscura rete privata.

Dopo tre anni di pausa Singleton inaugura il nuovo millennio con un titolo ibrido, che fa da ponte tra il suo cinema impegnato degli esordi e quello commerciale al quale si dedicherà quasi totalmente da lì in poi. Il remake di Shaft il detective, pellicola di culto della blaxploitation anni ’70 diretta nel ’71 da Gordon Parks. Lo Shaft di Singleton in realtà è più una sorta di seguito o di possibile spin-off dell’originale che un vero e proprio pedissequo rifacimento. Il suo punto di forza è senza dubbio l’aver scelto come protagonista il Re del Cool degli anni Duemila, ovvero Samuel L. Jackson, che qui dà ancora una volta grande prova di sé e delle sue capacità di iconico mattatore. E il resto del cast non è da meno, con un odioso Christian Bale nei panni del cattivo di turno, viscido e arrogante yuppie; Jeffrey Wright, Toni Collette, Vanessa Williams e nuovamente Busta Rhymes nei panni di Rasaan, amico e spalla del protagonista. In quelli dello zio c’è invece Richard Roundtree, lo Shaft originale, per quello che più che un cameo è un doveroso tributo da parte del regista. Più debole lo script, per quella che è una storia già vista che la regia di Singleton riesce comunque a rendere godibile, insieme alla bravura di Jackson e ovviamente al mitico tema di Isaac Hayes in colonna sonora.

L’anno successivo, con Baby Boy – una vita violenta, a dieci anni di distanza dal folgorante debutto, Singleton fa ritorno al ghetto e a South Central con una storia sul machismo dei giovani uomini di colore e sulla loro cronica immaturità e inaffidabilità. Un vero e proprio romanzo di formazione, condotto dal regista con mano sicura e voce chiara e fuori dal coro, per un ritorno alle tematiche delle origini salutato con entusiasmo dalla critica internazionale e da una buona fetta di pubblico. Con questo film il regista lancia Tyrese Gibson, allora agli esordi e ora superstar di fama mondiale, con svariati film all’attivo, dischi e di recente un libro bestseller. Completano il cast Omar Gooding, Adrienne-Joi Johnson, Taraji P. Henson, Ving Rhames e la superstar dell’hip-hop Snoophttp://www.deastore.com/covers/801/312/336/batch3/8013123365200.jpg?1318925894 Dogg. Racconta di Jody, un ragazzo di 20 anni che vive ancora con la madre Juanita nonostante sia già padre di due figli avute da due donne diverse. Frequenta il suo poco raccomandabile cugino Sweetpea, che entra ed esce dalla galera, ma la situazione cambia quando in casa arriva il fidanzato della madre che cerca di svegliarlo. Altri problemi arriveranno quando decide di convivere con la sua nuova fidanzata e abbandonare la casa materna. Singleton teneva molto al film e lo definì “un’analisi, sullo schermo, dell’anima di un uomo nero. Può sembrare caotico, ma è vero. Questo film parla di una generazione di giovani neri che non sono cresciuti”.

Chiamato a sostituire Rob Cohen dietro la macchina da presa, nel 2003 Singleton dirige 2 Fast 2 Furious, secondo capitolo del franchise e sua prima opera prettamente commerciale, nella quale non manca però di infondere una serie di tocchi in linea con la sua poetica, non ultimo quello di renderlo un blockbuster d’azione multirazziale con la coppia protagonista (Paul Walker dal primo film e il suo amico Tyrese in sostituzione di Vin Diesel che aveva temporaneamente abbandonato l’oliata macchina per poi risalire al volante qualche anno dopo con grande successo) di amici uno wasp e l’altro afroamericano, con le bellezze una latina (Eva Mendes) e l’altra nipponica (Devon Aoki), il solito rapper (stavolta tocca a Ludacris) e qualche altro attore con cui aveva già lavorato in passato (Cole Hauser). Mettendo da parte la vena d’autore Singleton allena i muscoli per la parte tecnica, dando alla pellicola un ritmo invidiabile e un look di gran classe che trasuda stile e gusto per le inquadrature da tutti i pori, per un risultato godibilissimo che ha incassato benissimo in tutto il mondo.

(foto da http://www.cinemastreaming.net/wp-content/uploads/2011/09/poetic-justice.jpg)Il passo successivo nel cinema mainstream è stato per Singleton quello di un thriller d’azione con il cervello e l’anima, di stampo classico, solido come il granito e ammorbidito soltanto dal gran soul in colonna sonora. Stiamo parlando di quel Four Brothers del 2005, che è una sorta di remake in chiave urbana del western I quattro figli di Katie Elder, del 1965 con John Wayne e Dean Martin. Interpretato con grande carisma da un ottimo quartetto composto da Mark Whalberg, Tyrese Gibson, André Benjamin e Garrett Hedlund, è la storia di quattro fratelli di Detroit, intenzionati a vendicare la morte della loro madre adottiva, uccisa durante una rapina. Inizialmente sembra solamente un incidente violento, ma la teoria dell’ esecuzione viene confermata passo dopo passo durante la loro indagine. Tra i suoi film più recenti, con Four Brothers John Singleton, che portò la pellicola fuori concorso a Venezia 62, dirige la sua opera migliore. Un film teso e ben recitato, mai banale o gratuito, con scene d’azioni convincenti e ben coreografate. Inoltre il tema centrale della famiglia e dell’unione che va oltre il sangue (i quattro fratelli sono stati tutti adottati) è davvero ben sviluppato, con alcune intuizioni tematiche e visive che fanno la differenza e dimostrano che la classe del regista resta comunque non assimilabile a quella di altri colleghi che sono solo anonimi shooters e rimane forte della sua formazione autoriale (oltre ad essere un grande fan del western più o meno classico, cosa che si riscontra non solo in questo, ma anche in molti altri suoi film, Singleton non ha mai fatto mistero nemmeno dei suoi studi, indicando come registi preferiti Orson Welles, Francois Truffaut, Steven Spielberg, Akira Kurosawa, John Cassavetes, Martin Scorsese e Francis Ford Coppola e, tra i suoi film del cuore, Toro Scatenato, Ladri di biciclette, Lo Squalo, I quattrocento colpi e Arancia Meccanica).

Dispiace quindi che, dopo ben sei anni di attesa e silenzio da parte sua (nei quali però si è dimostrato produttore capace e accorto, finanziando e promuovendo le due regie di Craig Brewer, Hustle & Flow e Black Snake Moan, entrambe premiate in numerosi festival e Illegal Tender di Franc. Reyes), nonché di progetti annunciati e poi saltati (come Luke Cage, dall’omonimo fumetto Marvel) o abbandonati in fase di pre-produzione (come il film tratto da A-Team, passato a Joe Carnahan) Singleton sia tornato quest’anno alla regia con un filmetto modestissimo, suo unico vero passo falso dall’inizio della carriera ad oggi.

Abduction, attualmente nelle sale italiane, è infatti un action-thriller per ragazzi interpretato dalla star del momento, benedetta dal successo della saga di Twilight, quel Taylor Lautner che manda in visibilio le quattordicenni di tutto il globo mostrando il fisico forgiato da anni di arti marziali e palestra. La storia, scritta con la mano sinistra da Shawn Christensen spreca il talento dei comprimari, la giovane Lily Collins, meglio del legnoso protagonista e i veterani Alfred Molina, Jason Isaacs, Maria Bello e Sigourney Weaver, inanellando una serie di dialoghi al limite del ridicolo e di snodi visti e rivisti mille volte. Nathan frequenta il liceo, è innamorato da sempre della bella vicina di casa, è campione di wrestling per volere del padre, che lo sottopone ad un continuo allenamento e lo vorrebbe lontano dalle sbronze e sempre vigile. Come molti adolescenti, Nathan non si riconosce nei genitori, si sente sempre fuori luogo e va da una psicologa per cercare di spiegarsi il perché di un misterioso sogno ricorrente e della rabbia che s’impossessa spesso di lui. Quando durante una ricerca scolastica trova per caso una sua foto da bambino su un sito di persone scomparse, capisce che la sua storia è ben altro da quello che gli hanno sempre fatto credere e in un attimo si ritrova in fuga, braccato dalla CIA e da un agente segreto russo senza scrupoli. 

Quello che avrebbe dovuto essere il Jason Bourne in versione teen è quasi un tv-movie pronto per essere messo in onda il sabato pomeriggio su Italia 1 e ahttp://data.kataweb.it/kpm2cinx/field/image/tcimage/294271 nulla serve il mestiere di Singleton che tenta di infondere un minimo di ritmo e di credibilità alla vicenda, girata col consueto stile robusto e al tempo stesso elegante, ma che qui risulta vano e vacuo poiché non supportato da una struttura adeguata a livello narrativo ed emozionale. Certo, se si parla di puro entertainment un paio d’ore te le fa passare e c’è sempre anche di peggio in giro, ma non può essere una scusante, e si sa che il pubblico dei teenager è di bocca buonissima, cosa che infatti ha decretato un discreto successo al botteghino per la pellicola della quale potrebbe, volendo, essere realizzato un seguito, che speriamo vivamente nessuno metta mai in produzione.

Naturale quindi che chi già accusava Singleton di essersi venduto (forse ignorando che il primo film glielo finanziò la Columbia Pictures, non esattamente una casa di produzione indipendente) ora lo dà per definitivamente morto. Ma pensiamo di poter dire che quasi sicuramente non sarà così.

Basta vedere una delle tante interviste su YouTube che lo vedono impegnato nella promozione di Abduction dove dice che sono passati vent’anni da Boyz n the Hood e dieci da Baby Boy ed è tempo di fare ritorno a South Central e raccontare una nuova storia in quella vena così particolare e personale che lo ha fatto conoscere al mondo, non solo cinematografico.

Lo auguriamo a lui come autore perché lo merita, e a noi come spettatori, perché riteniamo che il suo pugno possa essere ancora da knock-out.

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