DJANGO UNCHAINED (id. – Usa 2012 – Quentin Tarantino)

 

di Fabio Migneco

( immagine da http://static.screenweek.it/2012/10/29/django-unchained-poster-italia-02.jpg )Se Bastardi senza Gloria aveva fatto conoscere un nuovo Tarantino alla maggioranza delle platee, convincendo critici e pubblico e portando alla ribalta il fino allora sconosciuto Christoph Waltz, questo nuovo e attesissimo Django Unchained ne è la naturale progressione. Curiosità e aspettative erano altissime, tanto che il film a conti fatti sarà il maggior incasso di sempre per il suo autore. Ma ancora una volta Tarantino sfugge ogni possibile etichetta e catalogazione. Come da sempre fa. Il suo primo vero western è in realtà un non western, proprio come il primo film Le Iene era un heist-movie senza l’heist senza la rapina, che infatti non veniva mai mostrata, questo, spacciato per un western, per di più uno spaghetti western, non lo è affatto. Tarantino conosce e ama i nostri western, Corbucci viene subito dopo Leone per lui – e non solo – ma del western all’italiana in questo film non c’è davvero niente (e salvo i titoli più importanti non è certo un male), a parte qualche omaggio a livello musicale, il nome preso dal classico con Franco Nero e lo stesso Nero in una apparizione amichevole che però è abbastanza insulsa, quasi un’occasione persa da parte di Tarantino. E’ più un film del filone blaxploitation ambientato nel west. Ramificazioni a parte, è una storia semplicissima dilatata per quasi tre ore come solo Tarantino sa fare, nel bene e nel male. Ci sono tantissimi pregi ma anche difetti nel suo Django, chiunque non lo riconosca più che un fan è un fanatico che non tenta nemmeno di essere obiettivo. Sono già in molti a gridare al capolavoro, ma siamo lontani da esso, purtroppo. E’ un film divertentissimo, come forse nessuno tra quelli in circolazione. E’ puro piacere cinematico questo sì. E’ l’ennesima riprova, come se ce ne fosse bisogno, di una maestria registica e di scrittura che non hanno eguali. Tarantino è uno che ama il suo mestiere e lo fa al meglio, divertendosi e divertendo. Perché può farlo certo, ma soprattutto perché sa farlo. E al giorno d’oggi non è affatto poco. E’ uno che si fa ancora costruire set autentici e usa il sangue finto vecchio stile, non quel sangue fatto al computer che tutti utilizzano negli ultimi anni ma che non vale un decimo del classico effetto.

Però rispetto ad altri suoi film qui manca qualcosa se si va oltre la prima visione che, come sempre con lui, è quasi orgasmica. Al contrario di Bastardi senza gloria che a una prima visione non convinceva se non per alcune scene ma che però cresceva visione dopo visione, Django Unchained appare come un ritorno alla forma pulp che lo ha reso celebre, regala un divertimento sfrenato e convince da subito, ma molto probabilmente questo rimarrà, visione dopo visione. Non ci sono grandi sottotesti, manca un vero approfondimento e la smania di piacere gli mangia parte del film. Sarebbe stato bello se nel 1997 Jackie Brown avesse bissato o superato gli incassi di Pulp Fiction. Primo perché era ed è un grande film, secondo perché la carriera del buon Quentin avrebbe, forse preso una piega diversa. E’ il regista simbolo e punto di riferimento di una intera generazione, ma nei suoi ultimi film sembra indeciso sul registro da seguire: mira a riscrivere la storia, affrontando temi spinosi e importanti, ma poi la butta sulla commedia o sugli stilemi dei generi che tanto ama e modella a suo piacimento. Va benissimo, se non fosse che le parti di commedia e l’ironia non sembrano mordere più come un tempo e persino i dialoghi qui appaiono in qualche punto un po’ appannati. E anche il post-modernismo a lungo andare sta iniziando a stancare. Chi scrive ama da sempre Tarantino il suo cinema e la sua personalità, sia chiaro, ma ripeto, bisogna essere obiettivi: quali sono le battute memorabili che resteranno in questo film? A parte quelle due o tre che si sentivano già nel trailer? Quali sono le scene che davvero fanno la differenza? Senza andare tanto lontano a Kill Bill, la cui seconda parte era quasi più western di tutto Django, dov’è una scena che da sola fa il film come quella della vendetta di Shoshanna nel cinema in Bastardi senza gloria? Certo non è per niente facile ogni volta tirare fuori dal cilindro qualcosa di memorabile e nuovo senza ripetersi né scontentare nessuno. Però allora non cominciamo a definirlo il suo miglior film dai tempi di Pulp Fiction o addirittura di sempre. Detto questo, il film è comunque spassoso e godibilissimo, girato con il solito occhio clinico per i dettagli e la composizione di inquadrature di grande efficacia e bellezza, montato con ritmo e gusto (e vedremo se, ora che purtroppo è scomparsa Sally Menke, l’affinità con darà grandi frutti), coadiuvato da una colonna sonora come sempre unica, che per la prima volta (dopo RZA e Robert Rodriguez nell’epopea di Kill Bill) vanta un uso massiccio di brani composti per l’occasione e non solo i soliti strepitosi recuperi di repertorio di un Tarantino sempre attento a questo aspetto della costruzione narrativa e filmica. Gli interpreti sono la vera forza della pellicola: Jamie Foxx, da alcuni criticato, rende bene il personaggio, ma i mattatori sono altri tre, Leonardo DiCaprio, Samuel L. Jackson e, ancora una volta, Christoph Waltz. Il primo nei panni di Calvin Candie dà vita a una nuova interpretazione da premio, ricca di sfumature e convincente tanto nei momenti da bambino viziato quanto in quelli di rabbia che esplode improvvisa. Il secondo impersona il classico “uncle-tom nigger” come direbbero oltreoceano, individuo spregevole e untuoso, un autentico verme. E guardatelo invece nella scena in cui lui e Calvin sono soli nella libreria, mentre sorseggia whisky e rivela di aver capito tutto: è lui che comanda se ci si pensa, in un attimo fa ancora più paura e Jackson erano anni che non era così bravo. Quanto a Waltz che dire, a essere onesti nello scorso film non mi aveva convinto più di tanto, non riuscivo a capire perché si gridava al miracolo. Ora l’ho capito e mi sono convertito. King Schultz è una caratterizzazione eccellente e Waltz potrebbe, dopo il Golden Globe, portarsi a casa il secondo Oscar e lo meriterebbe. Una resa diversissima dal colonnello nazista Landa, non fosse che per questo bisognerebbe vedere il film in lingua originale. L’umanità, la simpatia, la verità che infonde al suo personaggio sono quasi commoventi, sbalorditivo il suo inglese senza sbavature, sbattuto in faccia con eleganza ai bifolchi vaccari del sud degli Stati Uniti, la sua eleganza, la sua uscita di scena. Il suo rapporto con Django è il cuore del film, persino più che la storia d’amore di Django con Broomhilda, dagli echi mitologi e teutonici come sottolineato in una bella scena al calor del fuoco. Kerry Washington fa quel che può con un ruolo piccolo che quasi non ci si aspetterebbe dal regista di Kill Bill e Death Proof che ha saputo magnificare la figura femminile come pochi di recente. Il resto del cast vanta camei eccellenti da Don Johnson (bravissimo, come già in Machete e in Eastbound and down in tv) a Jonah Hill, da Walton Goggins (un po’ sprecato a dire il vero) a Michael Parks fino a Tom Savini, Zoe Bell, M.C. Gainey e lo stesso Tarantino, in un ruolo che definire esplosivo è riduttivo! Ma guardando bene si scovano anche vecchie glorie del western americano più o meno classico e innesti curiosi come Tom Wopat, il Luke di Hazzard (il Marshall). Menzione speciale per James Remar, noto ai più come il “papà” di Dexter, già pistolero a suo tempo per Walter Hill, che qui compare due volte, all’inizio come uno dei fratelli Speck e nei panni di Butch a Candieland.

Si vocifera di una prima versione che al montaggio durava circa cinque ore (!!). Molto probabilmente è lì che i difetti di cui dicevamo vengono appianati, ma quasi sicuramente non lo sapremo mai. Senza contare che all’inizio il casting doveva essere ben diverso, con defezioni anche illustri  – prima Kevin Costner, poi Kurt Russell – e ruoli cancellati, riscritti nuovamente o accorpati in un unico personaggio, come nel caso di Goggins.

In ogni caso, obiettività o meno, Django Unchained è senza dubbio un buon modo di festeggiare i vent’anni di carriera di Quentin Tarantino, autore enorme che sa sempre come far parlare di sé, non solo con le sue opere, che continua a stupire e a far discutere (e di polemiche anche qui ne ha generate a iosa) e, soprattutto, a intraprendere strade mai scontate. Un film che magari ha un voltaggio di poco inferiore a illustri suoi precedenti, ma che è sempre una bella scossa per lo spettatore. A preoccupare semmai, resta il fatto che una volta Tarantino non piaceva a tutti, ora ha trovato un pubblico molto più eterogeneo e trasversale e non è detto che sia un bene. Specie se per farlo deve in qualche modo addomesticare la sua visione delle cose.

 

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