EPPURE LA PIOGGIA

di Paolo Marcacci

(immagine da http://www.agenziaimpress.it/news/ambiente/estate-in-stand-by-il-maltempo-durer-5-giorni_10554.html )Chissà da dove saltano fuori certi ricordi: come se una sensazione bastasse ad aprire un sipario su quello che neppure rammentiamo più di essere stati e che invece ci appartiene ancora, a nostra insaputa, con tutta la forza che il nostro vissuto riesce ad imprimere dentro quello che siamo diventati. Ce lo dimostra, senza svelarcelo.

Fatto sta che pioveva, alla stessa maniera di quel giorno: una pioggerellina sottile, quasi nebulizzata, dopo il temporale del giorno prima che aveva lucidato la città gonfiando il petto del Tevere che s’era fatto verde militare, come a volersi mimetizzare in mezzo alle sue sponde.

Pure quella volta era andata così, infatti il campo dopo ventiquattrore era ancora pesante al limite dell’impraticabilità, con due larghe chiazze acquitrinose qualche metro oltre le due aree di rigore, quasi impercettibili nel perimetro annacquato. Erba neanche a parlarne e di sintetico all’epoca c’era solo la stoffa delle maglie che diventavano zavorra in un pomeriggio come quello.

Il cielo era canna di fucile, fatto apposta per riflettere gli umori che si andavano sintonizzando su quell’uno a uno sempre più scontato, sempre meno migliorabile da entrambe le squadre. E dire che non sarebbe servito a nessuna delle due. I genitori, oltre la rete esile, saltellavano per il freddo sotto gli ombrelli e si dicevano cose irriferibili da una porta all’altra, qualcuno minacciando di passare alle vie di fatto non appena l’arbitro ragazzino avesse fischiato la fine. Il pantano era nella partita stessa più che sul terreno di non gioco, ormai.

Non avrebbe mai giocato, in una situazione del genere; piccolino com’era e su quel campo, ancora pulcino fra gli allievi e con quel cinque avversario che per la statura avrebbe già potuto essere maggiorenne.

Però erano finiti gli attaccanti: il nove s’era fatto male all’inizio del secondo tempo e l’undici dopo una ventina di minuti, tutti e due perché s’era indurito il polpaccio. Il mister lo guardò e gli disse che doveva tenere palla, con una certa fiducia nei suoi piedi che già lo avevano fatto aggregare ai più grandicelli più di una volta e con un po’ di scetticismo per il terreno di gioco dove rischiava di volare ad ogni contrasto.

Mancavano venti minuti scarsi, entrò dopo aver infilato nei pantaloncini la sua maglia numero otto: non solo il numero gli piaceva ma rendeva l’idea del suo stato larvale di calciatore: centrocampista offensivo o attaccante vero e proprio? Il mister diceva che aveva i piedi per fare tutto ma che non era ancora né carne né pesce, proprio così. Si sistemò abbastanza avanzato, visto che di punte non ce n’erano più, dietro l’esterno sinistro che si era accentrato per necessità. Tentò un paio di aperture frenate dal fango e gli capitò l’occasione di un diagonale rasoterra che sfiorò la faccia esterna del palo. Non prese tanto fiducia per quello quanto perché sentì nitidamente uno dei genitori avversari dire che per fortuna non lo avevano fatto entrare prima. Seguirono un po’ di calci e una trattenuta che lo sbarbato col fischietto fece finta di non vedere: del resto si giocava in trasferta, sulla Casilina e non era il caso di fare gli eroi, visto che tutti avevano già individuato quale fosse lo scooter dell’arbitro. Andava sempre messo in conto, in ogni campo di Roma, non era neppure una questione di centro o periferia.

Si sentiva molto soddisfatto quando cominciò a sentire le voci a bordo campo che pretendevano di segnalare all’arbitro la fine del tempo regolamentare e anche l’entità del recupero: aveva fatto un passo avanti nella stima del mister e anche nella gerarchia del gruppo: di lui ci si poteva fidare, non solo per tenere palla.

Però valeva la pena provare a seguire la traiettoria di quel rilancio del suo portiere, arcuata e tesa, che prometteva di arrivare oltre la trequarti: partì in linea col cinque, lo lasciò sul posto e col piede destro riuscì a mettere a terra la palla che si fece addomesticare schizzando acqua allo stesso modo di un’anatra che si bagna le penne. L’area forse era già cominciata, avvertì lo spostamento d’aria della scivolata di un avversario che gli stava chiudendo l’angolo di tiro, con la suola si portò indietro la palla mandando a vuoto quello che si striò di fango fino alle orecchie; nessuno dei suoi lo aveva seguito: il più vicino era il portiere che aveva cominciato ad uscire per chiudergli il più possibile lo specchio. Questi erano i momenti in cui si smarriva, in cui si sentiva ancora bambino perché diventava precipitoso nella conclusione e la precipitazione faceva venire meno la tecnica di cui era dotato.

Quasi sempre.

Quella volta riuscì a notare che il portiere aveva già scelto di uscire a terra azzeccando la scelta di tempo ma lasciando scoperto il palo più lontano, verso il quale si stava precipitando il numero sette avversario, uno dei più rapidi. Riuscì a spostarla di cinque centimetri per farla capitare su una zolla meno fangosa e poi con l’interno destro e la caviglia il più possibile aperta diede il giro alla palla. Il fremito della rete, vicino al palo, fece partire goccioline in ogni direzione. L’abbraccio per poco non lo soffocava, non sentì neppure il fischio dell’arbitro che indicava il centro del campo.

In un lampo, seppe da se stesso che non era mai più stato così felice, su un campo da gioco: neppure quando aveva esordito da professionista o il giorno della promozione e nemmeno quando si era ritrovato in prima pagina dopo il goal alla Lazio.

Come era possibile che gli fosse tornata in mente quella partita di tanti anni prima, proprio quel giorno in cui usciva dal tribunale dove l’ex moglie aveva appena ottenuto tutto quello che poteva da uno come lui, al secondo anno di Serie A e con un contratto pluriennale con l’ingaggio a salire, più un marchio di calzature che lo voleva come testimonial?

Non era certo dello stato d’animo migliore per quel tipo di amarcord.

Eppure la pioggia era la stessa, della stessa consistenza, che apparentemente non ti serve l’ombrello e poi quando arrivi a casa sei fradicio. Un po’ come accade coi ricordi, che quando li dai per spacciati hanno sempre a disposizione qualche minuto di recupero.

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