Japan Restaurant

di Paolo Marcacci

( immagine da http://www.darsch.it/?pg=sphere&postid=515 )La diffidenza c’era tutta, ammettiamolo; ancora in parte resiste,
che una volta sola non fa statistica. Però la prima non si scorda mai, al ristorante giapponese e se pensate solo sushi già sbagliate, come tutti quelli che
ancora non hanno varcato la soglia estrema del gusto. Le bacchette con gli
ideogrammi, più eleganti di quelle dei ristoranti cinesi, con una specie di
mattoncino di porcellana per poggiarle, già si vede la differenza.

Mica scemo il cameriere-kamikaze: ci piomba addosso tipo Pearl Harbour, come vino ci
consiglia un “Aglianico”, lo dice lui stesso che è per andare sul
sicuro. Siamo in tre, solo io all’esordio: i crudi che immagino io sono cozze, vongole,
fasolari, cannolicchi rarissimi, da annegare nel succo di limone o da esaltare
con due goccioline di tabasco; bocconi di salmone e trancetti di tonno non mi
convincono più di tanto.

Quindi?

Quindi si va su un bouquet di ravioli, vapore
piuttosto che griglia, simil-cinesi ma serviti diversamente, in fila su una
piccola fiamminga candida, con ciotolino di salsa che una volta tanto non è
soia, ha un retrogusto di nocciola, buono.

Il raviolo ha un gusto delicato, si
percepiscono alcuni aromi, erba cipollina ad esempio; l’involucro di pasta è
talmente sottile che al confronto Giovanni Rana fa i foratini. Appena sudato, o essudato
fate voi, il raviolo si lascia mangiare senza lasciare tracce troppo decise
sul palato, ma neanche troppi danni, c’è da dire: un sofficino nano, ma
con più pretese.

E adesso?

La frittura loro è diversa, mi spiegano, molto leggera,
neppure sembra che le pietanze siano fritte, una nuvola, praticamente. E proviamo
‘sta tempura, forse nel Sol Levante il proverbio recita “Finché dura fa
tempura” proprio perché mettono tanti ortaggi, a bastoncini, assieme ai gamberi che ho
ordinato, sgusciati fino alla coda e pastellati tutt’intorno, croccanti ma
per nulla unti, “delicatissimi” come le pennette a casa di Eleonora Giorgi in
“Compagni di scuola”.

Tornerò a pensarli dopo un paio d’ore, devono aver
ripreso vita all’altezza del cardias, la valvola che collega stomaco ed esofago.
Niente dolce, zenzero e thé verde li rispetto moltissimo ma quando si
travestono da tisane, non da gelati o pasticcini.

Il caffè mi sembra italiano, ma
forse è solo oriundo, naturalizzato in virtù del fatto che stiamo su Via Barberini.
Infine il sakè, caldo al punto giusto, saporito, acidulo ed aromatico come si
conviene.

Assieme al conto, asciugamanini tiepidi per mani e, il mio commensale
osa, per il viso, come quando il barbiere ha finito di raderci. Perché questo
gesto inconsulto? Forse ha visto il conto e si copre il volto? Non tocca a me
pagare, sono ospite, mi sembra di capire che siamo sui novanta Euro, forse
qualcosa in più.

C’hanno lasciato la boccetta del sakè, però, stasera tutta
vita.

Devo fare in modo di tornarci, per giudicare non basta una volta sola. E una
volta “sòla”?

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