Se una mattina d’estate ad “Accoppa Vogur”…

di Antonella Narciso

Se pensate che la creatura più esplosiva d’Islanda sia il vulcano Eyjafjallajokull, è solo perché non avete ancora sentito parlare di Tomislav Bokšıć.

Grossolanamente ignorante ed infantile, sessuomane e vanesio, il protagonista del romanzo di Hallgrímur Helgason mostra una spiccata tendenza al turpiloquio ed esprime giudizi politicamente scorretti nei confronti di quasi tutte le etnie con cui interagisce (i tedeschi sono crauti inaciditi e gli italiani pizzaioli coglioni). Tomislav, o meglio Toxic, come è stato ribattezzato, è però la prova vivente di quanto sia facile, per un gran lavoratore, vivere il sogno americano: negli USA da sei anni, svolge una professione che gli consente di inviare denaro alla madre in Croazia, abita a New York in un appartamento dotato di tutti i comfort e passa spesso le sue notti con una sensuale fidanzata indo-peruviana.

Tutto molto ordinario e prevedibile, fino al giorno in cui il suo sessantaseiesimo “lavoretto”, un polacco con i baffi il cui cadavere viene occultato in una discarica del Queens, si rivela essere un federale con i baffi ed al nostro eroe non resta che abbandonare precipitosamente il paese per evitare l’arresto: è così che il buon Toxic, sicario della mafia croata pieno di talento ma sfortunato, sale su un aereo per Reykjavík sotto le mentite spoglie (e mai termine fu più adatto) di un telepredicatore a stelle e strisce alla volta di una nazione in cui è vietato il possesso di armi da fuoco, ci sono più scrittori di gialli che omicidi e la gente parla una misteriosa lingua lunare. Un vero inferno, insomma.

Da queste premesse Helgason, pittore oltre che scrittore, dipana un romanzo che non regala solo battute fulminanti ed esilaranti ritratti umani in salsa hard boiled (da antologia per pacifisti disincantati la frase “la guerra ti cambia, o diventi fascista o diventi frocio”, così come indimenticabile resta la mamma del buon Tomislav che “quando lavava i piatti, sembrava di avere un gruppo punk che faceva le prove in cucina”), ma viaggia attraverso i riflessi di due storie nazionali, quella islandese precedente al crack finanziario e quella croata, con grande intelligenza narrativa e sensibilità umana. L’autore dà prova di una notevole abilità schivando i tranelli dello stereotipo antropologico e regala a chi legge un (anti)eroe divertente e solo all’apparenza risolto che, come un vulcano, rimodella il paesaggio intorno a sé.

All’inizio si ride, e tanto, per gli esiti della creatività linguistica di Toxic, che familiarizza con i misteriosi suoni dell’idioma locale ritraducendoli a partire dal suo orizzonte di esperienze: ecco sorgere quindi il ridente borgo di Accoppa Vogur o fare il suo ingresso in scena la seducente Gunholder. Per non dire poi delle acute e devastanti analisi sociologiche condotte secondo i principi della scuola di Vukovar. Ma quando si crede di aver capito la direzione presa dalla lava narrativa, ecco che una virata improvvisa nell’intreccio descrive scenari inattesi e porta alla luce materiali altrimenti nascosti nelle viscere del rimosso: gli Islandesi non sono una versione pallida del Buon Selvaggio ed il killer croato non è un personaggio di genere intriso di humour nero. Più che all’universo di Tarantino, pur citato più volte, il mondo dipinto da Helgason ricorda le atmosfere stralunate di alcune opere dei fratelli Cohen riviste con l’occhio solo apparentemente cinico di Anders Thomas Jensen nel suo “Le mele di Adamo”.

“Toxic” è uno scrigno di parole ed emozioni, tenero e sboccato, brutale e commovente, un romanzo dal respiro europeo tanto più profondo quanto meno dichiara la sua complessità. E se alla prossima Fiera del Libro di Francoforte, interamente dedicata all’Islanda, doveste imbattervi in un individuo che vanta la sua discendenza diretta dagli scaldi, credetegli nonostante il marcato accento slavo. Ma soprattutto non dategli mai le spalle.

Helgason, Hallgrimur, TOXIC -Come smettere di ammazzare la gente e imparare a lavare i piatti- Milano, ISBN edizioni, 2010.

 

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