L’allucinazione consensuale di Gibson e le superstizioni digitali, ma anche tanta tecnologia e tanta attenzione alle nuove applicazioni. Amabile nerd, insegnante o tecnico consapevole? Scopriamo insieme chi è l’autore di Tecnocrazia, El Doctor Sax editore

di Francesco Bordi

Le interviste realizzate nel corso delle fiere librarie sono quelle che più amo, anche se comportano un certo margine di rischio. La cornice culturale fatta da appassionati, per appassionati, potrebbe indurre infatti ad affrontare autori ed operatori di settore con un occhio più benevolo ponendo domande meno scomode, che normalmente invece non si esitano a formulare, andando così più sugli aspetti positivi del testo. In questi casi, infatti, l’euforia e la felice predisposizione d’animo di chi intervista e di chi risponde è frutto del fatto di essere estremamente appagati di vivere giorni immersi fra copertine di libri e in compagnia di chi li ha scritti, letti e pubblicati. Pur essendo in editoria da molti anni, subisco ancora il fascino di Più Libi Più Liberi o di Pisa Book Festival (anche se in maniera ridimensionata dal tempo che passa), senza tralasciare le fiere minori che regalano sempre delle perle editoriali inaspettate. Personalmente, però, mi impongo sempre di rimanere lucido ogni volta che svolgo il mio lavoro, soprattutto in fiera. Siamo tutti felici di esservi presenti, ma proprio per questo occorre ricordarsi di essere professionali, rispettare l’argomento, rispettare i lettori e porre ogni tipo di questioni, anche le più scomode.

Nel caso di “Tecnocrazia” il rischio di approcciare un testo colmo di aspetti troppe volte affrontati in molteplici sedi era altissimo. Il rapporto fra nuove tecnologie e società ormai è presente a livello plateale e sostanzialmente la prevedibilità delle risposte era dietro l’angolo.

Bene, così non è andata grazie all’autore di questo saggio, edito dai ragazzi di El Doctor Sax, che ho incontrato proprio nell’ultima edizione di Più Liberi: Salvatore Capolupo.

L’autore calabrese, giunto al suo secondo titolo ufficiale, non solo ha saputo fornire risposte più ampie rispetto a quanto di norma si ascolta su questa materia ma, aspetto ancor più interessante, si è anche difeso egregiamente su osservazioni scomode là dove alcuni suoi colleghi scrittori molto più maturi ed avvezzi non sempre hanno dimostrato la medesima disinvoltura.

Culturalismi. Francesco Bordi: «Come è nato l’incontro con El dottor Sax? Una realtà di settore piuttosto su generis. Quando loro scelgono un autore, ne rimango sempre incuriosito perché sono una bella voce multiculturale, a livello europeo. Ricordiamo a tal proposito che il gestore della casa editrice è un Italiano che si è spostato a Valencia dove ha creato una libreria ed una casa editrice. Si tratta di un’azienda culturale di nicchia che però sta crescendo assieme ai relativi scrittori sempre fuori dal sistema, pur avendo in catalogo anche un piccolo gruppo di autori classici.  Trovo questo nostro editore oltre confine particolarmente interessante perché è difficile incasellarlo in un genere. Non possiamo definirlo generalista, ma nemmeno specializzato in un settore librario specifico. Nel caso di Tecnocrazia abbiamo un saggio che però sfugge alle convenzioni, un po’ come il suo editore…».

 

Salvatore Capolupo: «La mia idea nasce da alcuni blog che avevo scritto precedentemente. Si trattava di mini-saggi sul mondo delle tecnologie e qualche recensione su libri e film di fantascienza. Da qui la mia proposta all’editore di realizzare un saggio, che poi è diventato “Tecnofobia”, il mio primo libro con El Doctor Sax in cui sostanzialmente io mi sono posto la domanda: “perché le tecnologie di oggi sono diventate parte integrante della nostra esistenza quando prima erano chiaramente soltanto degli strumenti tipicamente per nerd o per specialisti?”. A questo proposito c’è una puntata di South Park in cui un personaggio, che è un alterego di Steve Jobs, usa gli esseri umani come cavie con la scusa di fargli accettare i termini e condizioni dei prodotti Apple. Ho pensato anche  agli attacchi hacker contro gli attivisti antri-Trump all’epoca della sua presidenza.  Di fatto dunque in tecnofobia ho tirato fuori molta aneddotica su sul mondo dei pirati informatici, così come su questo tipo di paure che i creatori di South Park o dei Simpsons hanno estremizzato.

La tecnologia di oggi ormai è alla portata di chiunque, nelle vite di chiunque e nelle tasche di chiunque, però troppo spesso non ci rendiamo conto di quanto possa essere condizionante. Se prima io avevo soltanto parlato di questi episodi in termini tecnofobia, in questo secondo titolo ho cercato di fare un discorso più ampio: non affronto uno strumento, ma quello che ormai è diventato un fine. I film di Cronenberg o la tradizione cyberpunk nei libri di Ballard non sono più fiction, ormai sono quasi realtà.

Queste riflessioni, frutto anche di una serie di ricerche di studi che ho fatto nell’ultimo anno e mezzo, hanno dato vita a “Tecnocrazia”, il dominio delle tecnologie sull’uomo; un dominio che è controllabile, basta fare attenzione a non esserne sopraffatti».

 

C: «All’interno di questo discorso che investe tecnologia, social e attacchi hacker mi interessa particolarmente il concetto di “superstizioni digitali” presente nel tuo libro. Come lo spieghi a me ed ai nostri lettori?».

 

Sal: «Diciamo che queste rientrano in una serie di osservazioni che mi è capitato di fare soprattutto leggendo qualche libro che riguardava il cosiddetto “debunking”, ossia il demistificare le leggende metropolitane, le storie che girano su internet, le superstizioni… Le credenze digitali sono ampiamente diffuse».

 

C: «Un esempio alla portata di tutti?».

 

Sal: «Pensa il complottismo che è uscito fuori dopo l’11 settembre, all’inizio degli anni 2000. Sono cominciate a girare tante teorie di questo tipo, sebbene contraddittorie tra di loro. Infatti anche se l’eventuale validazione di una invaliderebbe le altre, sono tutte credute e continuano ad essere credute pur essendo nate, fondamentalmente, su internet. Non si sono sviluppate in base ad una teoria espressa, ad esempio, in un saggio.  Una delle più veicolate, che gira ancora dall’11 settembre ad oggi, è che l’attentato sia stato fatto…».

 

C: «Dagli Americani stessi vero?».

 

Sal: «No, dagli alieni(!), in particolare dai marziani. C’è addirittura una variante in base alla quale si tratterebbe di marziani di natura satanica».

 

C: «Quanta percentuale si può dire che creda a questo? Parliamo di termini numerici così ampi da destare comunque un dato importante?».

 

Sal: «Non so le percentuali precise, ma sicuramente è in crescita considerando i numeri che ho guardato. Considera che su internet ci sono nicchie di appassionati per qualsiasi cosa. Se tu sei un appassionato di cyberpunk, trovi folte nicchie cyberpunk, così come se sei appassionato di letteratura ungherese ad esempio».

 

C: «Nello specifico queste teorie, secondo te, hanno un riscontro variabile come intensità a livello geografico? Quindi gli Stati Uniti sono soggetti, più di tutte le altre nazioni, a questa crescita di credenze digitali? Oppure che si tratti di Europa, Stati Uniti o Africa non cambia niente? La cosiddetta “nicchia” varia a seconda della percentuale della popolazione? Io credo dal mio punto di vista, che queste cose siano trovino terreno più fertile in America perché essendo un territorio molto ampio, ogni piccola nicchia è pur sempre piuttosto espansa. Se un regista realizza un film di nicchia in Europa, magari Italia, in Francia oppure in Spagna, ha un certo tipo di seguito più o meno limitato. Se un cineasta fa lo stesso negli Stati Uniti, per quanto piccolo sia il suo seguito, sarà sempre maggiore di quello dei nostri registi indipendenti europei. Tu che ne pensi?».

 

Sal: «Può essere un discorso interessante come parallelismo. Sicuramente gli Stati Uniti sono molto inclini a queste idee, tant’è che ormai siamo al punto che gran parte di questo tipo pensiero complottista, il pensiero non allineato e ancora quello mainstream sono quasi indistinguibili l’uno dall’altro, a volte. Questo si è verificato anche nel corso della pandemia. A tal proposito ho notato che le teorie di quel tipo vanno tanto perché negli U.S.A. c’è anche più connettività».

 

C: «Andando più a fondo sul complottismo negli Stati Uniti, credi che sia subentrata una lettura politica su questo tipo di fenomeno? Riguardo alla lettura alternativa che citavi prima in epoca Covid, ricordo un aspetto che mi aveva colpito molto in quel periodo. La percezione negli Stati Uniti era che in base al fatto che indossassi o meno la mascherina, eri orientamento verso sinistra o verso destra, un po’ bizzarra come lettura a livello sanitario. Hai ritrovato questo punto di vista lavorando al tuo saggio? Anche nella tecnologia, c’è questo strano distribuirsi delle correnti politiche oppure non c’entra nulla e al massimo ci imbattiamo nelle superstizioni digitali?».

 

Sal: «In realtà credo che il termine giusto da usare l’abbia letto su una rivista, credo spagnola, proprio ai tempi del Covid. L’articolo parlava di “diagonalismo”. Il concetto diagonale vuol dire sostanzialmente che chi abbraccia quel tipo di idee non è né di destra né di sinistra. Attraversa “diagonalmente”, per l’appunto, sia l’uno che l’altro. E anche lì sembrerebbe distribuito quasi allo stesso modo, anche se la mia idea è che si tratti di linee di pensiero più vicine alla posizione conservatrice che progressista, parliamo sempre degli Stati Uniti».

 

C: «Quindi paradossalmente il populismo può unire le politiche».

 

Sal: «Sì, è un è un paradosso terribile, però c’è questo aspetto. Si tratta di molteplici teorie, che non hanno alcuna uniformità di pensiero, difficili da quantificare e da qualificare perché sono davvero imprevedibili. In Tecnocrazia parlo anche di idee nate su 4chan, un sito che fa parte nel dark web. Buona parte dell’elettorato dei conservatori statunitensi prende le informazioni da 4chan. Noi siamo abituati a pensare ai conservatori come dei “Boomer” sui cinquant’anni  e più che non usano la tecnologia, ma negli Stati Uniti tantissimi hacker sono repubblicani e ultraconservatori. La loro età è piuttosto variabile, a volte sono anche ragazzini».

 

C: «Di che età parliamo?».

 

Sal: «Venticinque, trent’anni… molto giovani. Se poi andiamo su Anonymous, un gruppo coordinato di hacker costituito da attivisti veri e propri con obiettivi che portano avanti mediante il boicottando tecnologico, non si arriva ai vent’anni di età; possono essere anche ragazzini di tredici, quattordici anni.

 

C: «Quindi diciamo che queste teorie estremiste supportate dalle nuove tecnologie, da prendere con le pinze, sono in mano a persone estremamente giovani, quindi magari non ancora mature sotto molti punti di vista».

 

Sal: «Si, le tecnologie sono a vantaggio dei cosiddetti nativi digitali, di cui spesso si parla ultimamente: se ne sono dette tante al riguardo… Ho espresso il mio personale parere al riguardo e so che non è un punto di vista benaccetto. Secondo me, in un certo senso, i nativi digitali non esistono perché io a mia volta non accetto il fatto che sia così semplice classificati come tali. Credo invece che ci siano individui che fin da giovanissimi sono bombardati dalla tecnologia  e questo non è detto che sia un qualcosa di necessariamente negativo.

 

C: «Forse potremmo parlare di ricettore digitale nativo in quel senso».

 

Sal: «Probabilmente sì. È proprio questo rapporto l’argomento più importante che affronto nel mio libro: la ricezione della tecnologia a più livelli. Considera che io ho quarantaquattro anni, quindi ho visto l’internet di prima generazione degli anni ‘90. Quando andavo a scuola era ancora un qualcosa di moderatamente avveniristico, però c’era: connessioni 56 K».

 

C: «Andiamo ora sulle domande un po’ più scomode. Negli ultimi quattro o cinque anni, complice anche la pandemia che costringeva molte persone a svolgere i propri compiti da postazioni lontano dall’abituale luogo di lavoro, sono esplose una serie di pubblicazioni,  riviste o monografie, dedicate alle nuove tecnologie, all’internet ed ai potenziali ulteriori sviluppi connessi. Positivi, negativi, catastrofici… al di là di tutto questo esistono molteplici studi su questi aspetti, sia saggi più leggeri che lavori più complessi, scritti da personaggi più o meno autorevoli. La domanda scomoda, ovviamente “asettica”, è: perché mai il lettore dovrebbe comprare anche questo libro di El Doctor Sax scritto da te su un argomento che è già presente in molteplici quantità e sfumature? Qual è la differenza che puoi fare tu nel panorama di questo tipo di offerta. Qual è il tuo punto di vista “altro” al riguardo?».

 

Sal: «Devo dirti la verità, ci ho pensato tante volte perché quando uno scrive prova sempre a chiedersi: “che cosa posso dare? Qual è il mio valore aggiunto?”. La risposta che ho provato a darmi è stata questa: io propongo un qualcosa che è visto dal punto di vista di un tecnico. Io sono un ingegnere informatico. Ho svolto anche un dottorato in informatica  quindi  sono un addetto ai lavori a tutti gli effetti che però, a un certo punto, ha cominciato a dire OK, bello tutto, però la tecnologia non può essere soltanto un discorso di applicazione di una tecnica, di algoritmi e di gestione dei dati. Ho iniziato anche ad interessarmi ai discorsi legati alla privacy. Quindi ho immagino un qualcosa che potesse interessare all’utente finale in quanto visto dagli occhi di tecnico un po’ più critico, un po’ più “umanizzato” rispetto al solito, se vogliamo, che potesse valutare un mondo tecnologico non necessariamente ostile, ma sicuramente con una certa attenzione, magari strizzando anche l’occhio all’arte per essere più chiari e meno pesanti».

 

C. «Ora arriviamo anche alla letteratura che mi interessa particolarmente, così come ai nostri lettori culturalisti, ma prima un’altra domanda scomoda. Nel discorso che hai fatto approvo in toto il tuo punto di vista di tecnico che, in una maniera tutto sommato rilassata e con esempi chiari, affronta la materia non facendo del catastrofismo.  Ti proponi in modo trasparente: ci dici che i prossimi sviluppi potrebbero andare verso una certa direzione (potenzialmente pericolosa), oppure nella direzione opposta. Il concetto base risiede nell’essere consapevoli di ciò che sta rapidamente mutando. Detto questo, gli aspetti informatici della vita attuale, così come le tecniche, sono dunque in continua evoluzione, quindi nei fatti c’è il rischio che questo libro sia vecchio fra sei mesi (ovviamente esagero), però…

Perché invece il lettore dovrebbe mantenere ancora il tuo testo relativo alle nuove tecnologie con il passare del tempo? Pensi che il tuo punto di vista, proprio perché di un tecnico, sia talmente importante tanto da poter reggere anche nell’immediato futuro, oppure pensi che, come tutti i libri di settore sia destinato ad avere un impatto breve fra i lettori?».

 

Sal: «Sicuramente non sono libri che hanno un tempo di vita lungo di lunga durata. Di questo ne sono consapevole, l’ho sempre saputo anche mentre lo scrivevo. Considera tuttavia che io mi richiamo anche Ada Lovelace, ad Alan Turing, che sono i padri fondatori dell’informatica. Alan Turing è uno dei miei personaggi, anzi oserei dire che è uno dei miei “supereroi” preferiti perché aveva capito come poteva funzionare un’intelligenza artificiale, come ipotizzare un automa e quali fossero i limiti di una computazione informatica già negli anni ’50. Lui costruisce già nel 1933 un modello detto “la macchina di Turing” che poi sarebbe diventato il computer».

 

C: «Saprai certamente che siamo in zona Asimov?».

 

Sal: «Assolutamente sì, ma io parlo tanto di fanta-scienza  in questo libro perché credo che, anche in quei richiami, ci siano dei fondamenti che soni universali; discorsi che probabilmente non saranno mai aggiornati all’ultima versione come avverrebbe per un software o per un’app, ma che sicuramente racchiudono dei principi che rimangono. Penso che vi siano delle fondamenta per tutte le azioni che andremo a sviluppare in seguito. Da qui ai prossimi cinque anni vedremo cose inimmaginabili, come è accaduto sempre anche nei testi di fantascienza, ne sono convinto. Però mi piace anche pensare che da qualche parte c’è un certo matematico, Alan Turing, che sorride mentre guarda le cose che tutto sommato aveva previsto e questo mi dice che un modello, anche in informatica, vada posto al centro di tutto. Io insegno in una scuola, quindi cerco di trasmettere questo tipo di concetti ai ragazzi. Nell’informatica teorica non ha importanza l’hardware, non ha importanza il software, ha importanza come tu hai concepito il modello».

 

C: « Quindi, secondo il tuo punto di vista, ha una maggiore importanza il punto di partenza-base, piuttosto che le applicazione pratiche…».

 

Sal: «Secondo me sì. Bisogna tornare di più all’origine».

 

C: «Intendi alla progettualità?».

 

Sal: «Esattamente: capire come un qualcosa è stato progettato in origine, perché può essere la chiave di lettura per le visioni del futuro prima di precipitarsi immediatamente alle applicazioni derivabili. Ricordarsi dunque del perché quel modello è stato progettato, qual era il suo scopo iniziale…

 

C: «Come molto spesso accade di fronte a saggi di questo genere, ci troviamo a metà tra scienza e fantascienza e quindi tra la letteratura che ti ha sicuramente stregato quando eri piccolo e la parte più tangibile, matematica e pratica che è l’informatica. A questo punto mi nasce spontaneo domandarti se hai ipotizzato una deriva letteraria di questa tua “Tecnocrazia”.  Tu ad esempio hai preso in esame la procedure dell’accettare in rete i termini di qualche applicazione o sito senza leggere tutta l’informativa, lo facciamo tutti, chi più chi meno. Pensi che questo potrebbe essere uno strumento artistico-letterario? Aggiustando meglio il tiro: hai mai immaginato un’opera teatrale che fosse ispirata da una persona che preme il tasto “accetto” senza leggere? Cosa potrebbe derivare da quell’azione, non solo a livello pratico, ma anche di paure connesse? Potrebbe essere una scintilla narrativa?

 

Sal: «Ammetto di averci pensato e, in un certo senso, spero anche che accada. La famosa azione dell’ “accetto i termini” potrebbe diventare qualcosa che interpreta la nostra realtà e che ci aiuti contemporaneamente a sensibilizzarci nei confronti di questa nuova quotidianità che sta cambiando.

Ho insistito molto nel mio libro con dei richiami al mondo della letteratura, ma anche del cinema di fantascienza…».

 

C: «A questo punto ti domando tre nomi di personaggi letterari che ti hanno ispirato».

 

Sal: «Allora, io parlerei di ispirazioni sia cinematografiche che letterarie. Inserirei sicuramente il protagonista ballardiano in generale, quello è assolutamente irrinunciabile. Poi citerei “Videodrome” di Cronenberg perché è assolutamente profetico rispetto a quello che abbiamo visto. Infine, sempre di Cronenberg, ci metterei la storia di due protagonisti di “eXistenZ” che immaginavano questi pod, ossia delle console di videogiochi, che si collegavano agli organi umani fino a riuscire ad infettarli.

A livello di spunto letterario personale ho pensato anche di buttare giù qualche idea partendo dal mio lavoro di informatico. Si tratta di progetti ancora acerbi, però si potrebbero fare.

Ho scoperto che esiste un’opera teatrale che riprende la vita di Alan Turing, dove c’è un attore, incredibile, che interpreta il matematico nel dettaglio riproducendone anche le balbuzie che lo caratterizzavano. Trovo emozionate vedere uno dei padri dell’informatica sul palcoscenico anche se tante cose, purtroppo non si possono vedere. È il limite degli aspetti tecnologici, molte situazioni non sono facilmente riproducibili a teatro.

Quindi è un po’ presto per pensare ad una vera e propria deriva artistica di Tecnocrazia, però magari un modo si troverà».

 

C: «Parlando di acerbità mi ricollegherei alla tua professione “altra” rispetto alla scrittura che è l’insegnamento. Tu insegni a ragazzi che vanno dai quattordici ai diciannove anni, quindi chiaramente ancora molto acerbi. Guardando loro e soprattutto la rispondenza in classe ed i comportamenti nel corso delle generazioni che si susseguono, dove pensi che andrà il loro rapporto con la tecnologia e soprattutto con le relative applicazioni? L’arte dell’intrattenimento, fruita attraverso l’utilizzo quotidiano dei device, dove credi che li porterà?».

 

Sal: «Per quello che ho potuto vedere in questi anni di insegnamento ho la sensazione che la tecnologia per i ragazzi sia una specie di stampella. Nel libro io riprendo proprio l’esempio che porta Mark Fisher nel suo “Realismo capitalista”. In questo bellissimo saggio, scritto da un autore che di fatto è stato anche insegnante, ho ritrovato le mi stesse osservazioni. Ci sono dei ragazzi che stanno in classe con le cuffiette dell’I-phone, che però sono spente. Se tu gli chiedi di toglierle, non se le tolgono perché, per loro, sono una specie di stampelle su cui appoggiarsi».

 

C. «Proprio come chi sta col cappuccio della felpa alzato in classe?».

 

Sal: «Sì, anche il cappuccio della felpa è assolutamente indicativo in questo senso, esattamente come le cuffiette. Mi ha colpito molto l’esempio dei device perché secondo me rispecchia proprio quello che diceva anche Gibson sulla “allucinazione consensuale”. Nel suo “Neuromante” descrive il cyberspazio come allucinazione consensuale. Non intendeva internet perché non poteva conoscere la rete, però io trovo allucinazione consensuale bellissima come definizione, perché è un’allucinazione in cui tu hai dato il consenso, hai accettato di farne parte e… quando non c’è, ti manca. Io ironizzo molto su questo in Tecnocrazia attraverso delle micro-storie. Racconto ad esempio di questo sbruffone, Alex, che a un certo punto si perde per strada mentre è in macchina. Dal momento che non c’è internet, il suo navigatore non funziona più e quindi si mette quasi a piangere perché non riesce a trovare la strada di casa. Quando non c’è la tecnologia, spesso molto discussa, poi ti manca.

 

C: «Mi permetto di dire che succederebbe anche a me adesso. Io sono nato quarantasette anni anni fa, quindi giravo con il “tuttocittà” in macchina. Da quando c’è Maps invece…

 

Sal: «Ma è assolutamente comprensibile. Per i ragazzi l’aspetto tecnologico però è ancora più importante, perché ci sono nati. Sono immersi nel digitale ed è veramente incredibile vedere anche come delle volte io debba dire loro delle cose per me ovvie. Se stai facendo l’interrogazione, non devi guardare Whatsapp. Eppure non è ovvio! Quindi a me piace dire: “Va bene, allora parliamo di questo, cerchiamo di abituarci”».

 

C. «Non pensi che sia semplicemente maleducazione? Oppure si tratta di non comprensione di ciò che non va fatto in classe?”.

 

Sal: «Credo che la tecnologia abbia le sue regole e che quelle regole in qualche modo o riflesso strano, vengano portate anche nel mondo reale e quindi il ragazzo non sempre riesce a distinguere».

 

C: «Però, facendo un paragone con gli anni ’80 e ’90, noi all’epoca non potevamo assolutamente stare con le cuffie del walkman in classe…».

 

Sal: «Assolutamente no, però adesso c’è una sovrastruttura molto diversa. Noi non badavano a tantissime situazioni e condizioni. Adesso i ragazzi sono molto più seguiti. C’è un’attenzione superiore. Ad esempio, il solo fatto che gli studenti vadano dallo psicologo è stato sdoganato. Ai nostri tempi probabilmente non era così. Devi considerare anche che loro vivono nell’ambito di una tecnologia più potente e come diceva l’Uomo ragno: “da grandi poteri derivano grandi responsabilità”. Questa è una verità enorme per quanto riguarda le tecnologie e secondo me è difficile fare dei passi indietro».

 

C: «Con questa citazione fumettistica che ci riporta ad anni spensierati io ti ringrazio e ti do appuntamento al tuo prossimo testo. Grazie Salvatore».

 

Sal: «Grazie a te!».

 

Salvatore Capolupo, “Tecnocrazia”, Valencia, El Doctor Sax, 2023.

Foto di Francesco Bordi © tutti i diritti riservati

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