Land Art: oltre la galleria c’è di più

di Ivan Errani

Gerry Schum deve essersi divertito molto quando il 15 aprile del 1969 alle 22.40 il suo film “Land Art” fu trasmesso dalla tv tedesca ARD. Deve essersi divertito davvero a pensare cosa provassero i telespettatori a considerare arte una escavatrice che lascia segni geometrici su una spiaggia olandese con la sua pala. Ecco, deve essersi divertito a dar vita al movimento della Land Art. Da quel momento, e per i mesi e gli anni successivi, l’arte si dotò di un nuovo modo di intendere la sua funzione. Artisti come Nancy Holt, Herbert Bayer, Walter De Maria, Dennis Hoppenheim, Michael Heizer ribaltarono il senso della performance artistica, elevarono a colonna portante della realizzazione i materiali così come si presentano in natura e lo stesso paesaggio, che da cornice muta in elemento costitutivo e fondamentale dell’opera.

L’arte esce dalle gallerie, entra in prepotente conflitto con il senso stesso del luogo atto a raccogliere l’opera: si scolpisce e destruttura il paesaggio, si feriscono le montagne, si allestiscono composizioni effimere e non fruibili. Per gli artisti della Land Art (e per quelli che si cimentano negli earth works), la materia, lo spazio e il tempo sono componenti imprescindibili l’una dall’altra. Le opere non si vendono e non si comprano perché sarebbe impossibile farlo.

Walter De Maria, il 28 settembre 1968 a Monaco, nella galleria Heiner Friedrich, distribuì in maniera omogenea sul pavimento 45 metri cubi di humus nero, 72 metri quadri e 60 centimetri di altezza. Nel manifesto programmatico Walter, oltre a rappresentare graficamente la pianta della galleria (qui il luogo è importante perché contenitore), espose il suo pensiero con queste parole: “Pure dirt, pure earth, pure land”. Esplicativo, decisamente.

Tra il ’73 e il ’76 Nancy Holt installò nel Great Basin Desert, Utah, i suoi Sun Tunnels: quattro tubi di calcestruzzo lunghi circa sei metri l’uno, distribuiti a forma di x e orientati in modo che il sole, durante il solstizio d’estate e d’inverno entrasse orizzontalmente nei tubi. Inoltre i quattro elementi sono arricchiti da fori che rappresentano altrettante costellazioni: Drago, Perseo, Colomba e Capricorno. L’istallazione ha senso solo se inserita nel contesto. L’opera non si vende e non si compra. Si visita, si vive, si usa.

Michael Heizer scalfisce la Mormon Mesa, più di 100 chilometri a nordest di Las Vegas, con innumerevoli cariche esplosive e crea Double Negative: due trincee nel suolo, una di 230 e l’altra di 100 metri di lunghezza, profonde 15 e larghe 9. Il fruitore-spettatore rimane disorientato per le dimensioni e per il fatto che è difficile da qualunque punto si osservi la scultura comprenderne la reale estensione. Non si compra e non si vende. Si vive.

Questi sono solo alcuni degli esempi dei lavori di una Land Art che ha, con la sua potenza fatta di innovazione e provocazione, liberato l’arte dalle barriere che la imprigionavano. Come un pesante interrogativo a cui pochi sanno dare una risposta completa e soddisfacente, questa corrente espressiva ha inoculato nelle coscienze degli spettatori il dubbio su cosa sia davvero l’arte: una costruzione estetica o l’estetica della costruzione, della manipolazione degli elementi, del rispetto per la materia così com’è e così dov’è?

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