Un romantico alla Nuvola? Un “Quintetto” in cerca d’autore? No. Solo la Grande Letteratura Europea che è passata per la Roma di Raoul Precht

di Francesco Bordi 

Gioviale, sorridente, a suo agio e di vedute ampie come il territorio culturale che abbraccia. In un’unica espressione: un europeista davvero simpatico.

Sembra la classica sviolinata dell’intervistatore, ma se mai avrete modo di conversare con Raoul Precht, capirete cosa intendo.

«Papà TETESCO, mamma romana»,

così subito scherzosamente l’autore di “Quintetto Romano”, pubblicato dai ragazzacci di Bordeaux Edizioni, appena domando se ho pronunciato correttamente il suo cognome.

Conversare con Raoul è rilassante perché dà la precisa sensazione di parlare dell’Europa con l’Europa stessa. Non è solamente il fatto che sia un traduttore in grado di gestire importanti idiomi continentali quali, il francese, l’inglese, lo spagnolo e il tedesco, oltre all’italico verbo. Non credo nemmeno che dipenda totalmente dal suo impiego presso il Parlamento Europeo. Il respiro ampio che si avverte in sua compagnia penso sia il risultato di ciò che i molti contatti che ha avuto con le altre culture hanno suscitato in lui. Ci sono infatti altri abilissimi traduttori e diplomatici che non regalano lo stesso tipo di approccio.

Se però un autore va a scrivere un “romanzo in cinque racconti” che vede come attori principali: Stendhal, Nikolaj Gogol’, Romain Rolland, Malcom Lowry e John Cheever rievocati nei loro soggiorni a Roma, la vera protagonista di tutto lo scritto, non è certo per mero esercizio stilistico, ma è per amore della Grande Letteratura e per i luoghi che la ospitano… la Città Eterna.

«Quando ho dato un’occhiata alle ultime uscite della Bordeaux, mi sono subito innamorato del titolo. Sono andato a vedere quindi chi era questo “Quintetto romano” e ne sono rimasto molto impressionato. Ti devo chiedere innanzitutto come ti è venuto in mente di chiamare in causa questi cinque grandi, alucni veri e propri giganti, della letteratura europea e mondiale e soprattutto mi incuriosisce sapere con quale approccio ti sei avvicinato. Reverenziale? Sicuro? Timoroso? Per gradi?»

«Allora, diciamo che l’idea è arrivata dalle mie letture già in periodo pre-covid e poi in piena pandemia. Avevo letto dei libri di Attilio Brilli che è un grande esperto del Grand Tour… dell’Italienreise… questi viaggi che si facevano in Italia nel Settecento e nell’Ottocento alla ricerca delle nostre bellezze architettoniche e paesaggistiche. Ovviamente erano tutte persone di un certo ceto economico. Non tutti potevano permettersi quei viaggi soprattutto all’epoca, tuttavia si può parlare dell’inizio del turismo, in un certo senso, perché da quel momento cominciano a nascere le prime guide. Ecco, la primissima idea del “Quintetto” è nata da lì. Contemporaneamente ho letto anche un libro, pubblicato da Castelvecchi, di una studiosa romana che si chiama Paola Frandini, che ha fatto una specie di inventario di tutti gli scrittori stranieri che sono venuti a Roma, indipendentemente dal fatto che ci abbiano passato pochi giorni o ci siano rimasti per anni. Alcuni li ha risolti in poche righe, mentre su altri si è soffermata di più, a seconda dei casi. È un testo piuttosto interessante perché ti dà un’idea di quanta gente nota sia passata per Roma. Ovviamente non tutti quanti vi sono transitati. Per esempio, di Kafka sappiamo che si è fermato a Riva del Garda, non è mai sceso oltre. Però una gran parte di scrittori stranieri è passata da noi e allora io da lì ho cominciato a fare una short list, diciamo, dei personaggi che mi interessavano particolarmente. Di quella lista, alla fine, sono rimasti questi cinque».

«Che rapporto hai con questi scrittori che, sicuramente, hai avuto modo di leggere?»

«Sono scrittori con cui ho un rapporto, diciamo, preferenziale. Stendhal è un autore  che accompagna un po’ tutta la vita. Da giovane leggi “Il rosso e il nero” pieno di entusiasmo, poi da grande passi a “La Certosa di Parma” e quindi arrivi alla mia veneranda età e cominci ad apprezzare magari  di più  la “Vita di Henry Brulard”»

«Quello non l’ho letto, ma gli altri li ho amati tantissimo»

«Perché sei giovane. Quando arriverai ai sessanta vedrai che ti piacerà.

Anche Gogol’ con “Le anime morte” o con il “Cappotto”… lo leggi da giovane e già  in quel periodo ti fa un certo effetto.

Rolland invece l’ho scoperto attraverso la stesura del mio libro precedente a questo, il libro su Zweig. Romain Rolland è stato un personaggio che ha avuto un’enorme importanza durante la Prima guerra mondiale, perché praticamente è stato lui a dar vita a un convintissimo gruppo di intellettuali pacifisti pacifismo, tra cui lo stesso Zweig, che ha contribuito alla fine di questo conflitto, dopo quattro anni di carneficina in tutta Europa. Insomma, un personaggio importante che ho voluto cogliere nei due anni trascorsi a Roma quando era ventenne, con tutta la sua freschezza di ragazzino.

Poi c’è Lowry. “Sotto il vulcano” di Malcolm Lowry è stato veramente un testo che mi ha aperto la mente. L’ho letto da ragazzo, all’inizio della giovinezza. È un libro di quelli veramente contundenti, in tutti i sensi.

All’ultimo, invece, John Cheever, mi sono avvicinato più di recente, però mi sono letto davvero tutto: diari, lettere, racconti…

Quello che mi premeva era scrivere di cinque autori con i quali io avessi una relazione già mia. Poi bisognava riuscire a creare intorno a loro una storia che nascesse dalle esperienze fatte a Roma nel periodo in cui vi erano stati.  A volte erano periodi lunghi, a volte molto brevi; ma comunque dovevano essere delle esperienze in grado di far scattare qualcosa con cui costruire una storia magari non vera, ma verosimile».

«Al di là delle fonti letterarie di cui mi hai parlato, perché hai voluto calare questo Quintetto nella realtà romana? Questi cinque autori, fuoriusciti da una selezione più ampia, avresti potuto inserirli in qualunque altro tipo di struttura, invece hai scelto di mantenere il palco di Roma, suggerito dalle tue letture. Prescindendo dal fatto che tu sei romano di nascita e che quindi conosci bene la Città Eterna e hai saputo individuare gli animi ben disposti verso di lei, c’è un altro motivo particolare?».

«Beh, la motivazione principale è stata una realtà autobiografica. Perché questo è anche il libro del Covid, il libro del confinamento, il libro del momento in cui io non potevo per nessun motivo venire a Roma. Vivo a Lussemburgo, dove lavoro, ma di norma  vengo a Roma, abbastanza spesso, praticamente una volta al mese. Durante quel periodo, invece, non era possibile».

«Amore dunque. Hai messo tutto e tutti in un unico terreno nostalgico. Un po’ come quando senti la mancanza della donna amata, vai ricordando tutte le cose fatte insieme a lei e pensi a quello che faresti se fosse con te. Tu hai riprodotto lo stesso tipo di approccio, ma a livello letterario»

«Esatto, anche se ovviamente era di volta in volta una Roma diversa, perché gli anni descritti vanno dal 1830 fino al 1950. Non è la nostra vita di oggi. Questo però mi permetteva in qualche modo di ricalarmi nell’atmosfera romana rivedendola attraverso i loro occhi, non attraverso i miei, almeno in linea di principio. In realtà poi nel libro qualche mio tratto autobiografico si è inserito attraverso questi autori nei quali in parte, di tanto in tanto, mi sono anche identificato».

«Perfetto, proseguo allora con le domande sulla fase creativa, quella che mi interessa maggiormente. Quanto c’è di romanzato e quanto è frutto della documentazione svolta? Molta suppongo. Ti chiederei anche se hai consultato solo testi in italiano o se ti sei servito anche di altri titoli in lingua».

«Comincio dalla fine. Mi sono documentato su vari testi europei, anche perché leggo e traduco correntemente da cinque lingue che poi sono le classiche. Papà tedesco, mamma italiana, poi ho imparato inglese e francese e mi sono laureato in ispanistica, quindi tutte queste lingue continuo a portarle avanti, a coltivarle e continuerò sempre a leggere, quando posso, in originale anche perché non mi fido dei traduttori, essendo traduttore io stesso… Al delle battute ti dico che da lì, da quei testi, ho saccheggiato il più possibile.

Passando poi a quanto c’è di falso e quanto c’è di vero ti posso dire che la storia che io racconto per ciascuno dei cinque autori è una storia inventata, ma è basata su fatti reali che ho scoperto, quindi verosimilmente le cose potrebbero anche essere andate così, in un certo senso».

«C’è anche dell’aneddotica?»

«Non solo. Ci sono anche lettere, appunti di diari… Cerco di non scrivere romanzi storici, piuttosto cerco di scrivere romanzi che abbiano appunto un contesto storico, nei quali io possa essere il più libero possibile. La stessa cosa che ho fatto con il libro su Zweig, in qualche modo. L’idea è quella di fotografare un autore, in un dato momento della sua vita. Quindi il passaggio a Roma, per esempio. E a quel punto tu, naturalmente, devi tener conto di tutto ciò che questo autore ha fatto e scritto in precedenza, ma teoricamente non dovresti menzionare quello che scriverà e farà successivamente. Proprio con Zweig, nell’ultimo capitolo, ho fatto una specie di fast forward onirico in cui praticamente prefiguro la fine che farà. Il famoso doppio suicidio, suo e della seconda moglie. In realtà tutto il libro è incentrato su un anno specifico, il ’35, mentre il doppio suicidio è del ’42. Io, in teoria, non potevo parlarne nel libro, quindi l’ho risolto in questo modo. Nel “Quintetto romano”, sono stato invece ancora più tassativo, in un certo senso. Ad esempio qui Stendhal ha quarant’anni, ma non è lo Stendhal che conosciamo noi. Non ha scritto ancora “Il rosso e nero”, non ha scritto “la Certosa”, tantomeno la “Vita di Henry Brullard”…

«Quindi è “solo” unl personaggio interessante con un potenziale immenso».

«Sì, diciamo che all’epoca era uno scrittore abbastanza conosciuto, ma non era ancora Stendhal, appunto. Aveva scritto biografie di musicisti, Rossini, Meyerbeer… Aveva compilato dei volumi di storia dell’arte italiana che erano andati benino, tutto qui; in compenso aveva già scritto “De l’amour”, ma tutto il resto doveva ancora venire. Insomma, uno Stendhal decisamente diverso da quello che conosciamo oggi.

Prendi anche Gogol’, reduce da questo successo-insuccesso con scandalo annesso proprio con “L’ispettore generale”. Scappa da Pietroburgo sull’onda delle polemiche che ne erano scaturite. Dopo un passaggio per Parigi, non conclusivo dal suo punto di vista, arriva a Roma, dove scrive il suo capolavoro. Questo ragazzo di appena ventotto anni trova a Roma quell’humus, quell’atmosfera tranquilla e rilassata, che lo porta a scrivere la prima parte delle “Anime morte”, che poi è quella importante, perché la seconda e la terza parte sono pervase di misticismo, vi si perde completamente e addirittura a un certo punto le brucia. Quando noi parliamo delle “Anime morte”,  ci riferiamo sempre alla prima parte. A Roma, quindi, è un ragazzo relativamente giovane, anche lui non è ancora il Gogol’ che conosciamo».

«Questa giovane età di alcuni di loro sei riuscito a riportarla anche a livello umano? Si comportano da ragazzi oppure hanno troppo spessore, godono di una presenza letteraria talmente forte che comunque trascendono l’età?».

«Beh no. Rolland ad esempio si comporta da ragazzo, ha ventidue anni…».

«Botte di testa? Eccessi?».

«Relativamente… Parliamo comunque del 1890».

«Quindi non c’era la “pericolosissima” trap», questa  pericolosa “macchina di morte” musicale…

«Direi di no…», sorridendo, «Però c’è un ragazzo ventenne dell’epoca, evidentemente, con tutte le caratteristiche di quell’età, in cui mi sono un po’ calato ripensando ai miei anni universitari; quando si è delle spugne, si è aperti a tutto e si assorbe qualunque cosa. Lui arriva a Roma per degli studi di storia. Deve scrivere una tesi sul Cardinal Salviati.  In realtà se la sbriga in quattro mesi, poi per il resto del tempo, di questi due anni di permanenza, va a visitare mostre e trascorre ore nei salotti. Rolland era un provetto pianista, quindi veniva chiamato nelle varie case altoborgesi e aristocratiche per allietare personaggi importanti, ministri …».

«E lui la prende bene? Domando, perché fare il fenomeno da baraccone non sempre piace, anzi…».

«Beh, a lui faceva piacere, perché si stava indirizzando verso una carriera da concertista. Poi sarà anche musicologo ed esperto di storia dell’arte. Era una di quelle persone veramente eccezionali fin da giovanissimo, avrebbe potuto fare qualunque cosa. Anche in questo caso spero di essere riuscito a rendere un po’ la sua immagine dell’epoca. Per farlo ho ripreso la corrispondenza che lui aveva con la madre e l’ho trasformata in un diario. Non c’è una parola del racconto su Rolland che lui non abbia effettivamente scritto in queste lettere. Diciamo che ho cambiato solo un po’ l’ottica».

«Essere così fedeli alla documentazione comporta comunque molto tempo. Quanto hai impiegato  per l’intero lavoro?».

«Beh, diciamo un anno per la fase di ricerca e un anno per la stesura».

«Onestamente pensavo molto di più, si tratta comunque di un tempo relativamente breve. Tornando a bomba sulla scelta di questi cinque autori, hai mai avuto paura che qualcuno potesse dire qualcosa di spiacevole sulla selezione? Quando vai a sfrucugliare mostri sacri così grandi c’è sempre qualcuno pronto a intervenire, soprattutto nell’epoca odierna: associazioni che ritengono il lavoro non troppo fedele alla realtà, gruppi in rete, gente non ben disposta verso quella vita descritta sotto forma di romanzo… Hai avuto qualche sentore in tal senso?».

«Non me ne sono proprio preoccupato e non c’è stato neanche nessuno che abbia avuto da ridire. Devo osservare che, anche con il libro su Zweig, è andato tutto bene. È addirittura uscito un contributo, su “Cultura Tedesca”, molto positivo. Questo vuol dire che se tu la ricerca la fai in maniera seria e approfondita, i risultati poi arrivano. Certo, un minimo di rischio con tutti questi personaggi c’è sempre e devi stare molto attento. L’importante è fare sempre i controlli incrociati e cercare di minimizzarlo, questo rischio».

«Perfettamente d’accordo. La mia domanda nasce per un motivo ben preciso. Visto che viviamo in un momento storico in cui non si può dir nulla senza che non ci siano degli attacchi immediati, soprattutto grazie ai “simpatici” social è facile trovarsi un bacino di gente che ti dà contro. Ad esempio io potrei cercare tutta una serie di persone che la pensano come me e poi portare un poderoso attacco di massa, invece mi fa piacere che questo non sia accaduto. L’attacco dell’hater prescinde dall’errore, prescinde da tutto».

«Credo che l’approccio debba essere diverso. Basta ignorarli. Tu fai tutto al meglio delle tue possibilità, del resto non ti devi preoccupare. Considera che, nel libro, motivi che si presterebbero a questo tipo di attacchi ce ne sono. Ad esempio, nel mio racconto su Cheever uno dei temi principali è il fatto che non accettasse ancora, in quegli anni, la sua omosessualità che, invece, verrà fuori dopo in maniera più evidente. Nel racconto, quindi, lui  va addirittura a consultare Esculapio, a Villa Borghese. Quella visita finisce per tranquillizzarlo ed indurlo ad accettare se stesso. È vero però che un tema come quello dell’omosessualità, ancora oggi, da noi,  scatena e suscita di tutto, ma io non me preoccupo».

«A proposito di Villa Borghese…  A quanto pare leggendoti e ascoltandoti possiamo dire che Roma è co-protagonista insieme a questi cinque scrittori. In realtà la vera protagonista sembra essere proprio  Roma. Detto questo, la città dell’epoca che hai raccontato e la città di adesso in che cosa pensi differiscano? In ambito tecnico e tecnologico certamente le differenze ci stanno, ma la più “grave” a livello umanistico, quale potrebbe essere? La più intensa qual è? Quella che va a penalizzare l’una o l’altra (ovviamente la seconda, suppongo)».

«Intanto, tu qui hai  già cinque Rome differenti, perché parliamo di periodi completamente diversi, in un arco temporale che va dal 1830 al 1950. Poi, rispetto all’epoca contemporanea, già dalla copertina puoi vedere una Roma che oggi non c’è più. Questo paesaggio sembra quasi un deserto, potrebbe essere la Tunisia. Se pensi, per esempio, che Stendhal per visitare San Paolo fuori le mura deve prendere un calesse che ci mette quaranta minuti, o un’ora per arrivare. All’epoca era considerata DAVVERO fuori dalla città. Ancora, nella parte su Cheever, che si svolge nel 1957, appare già con molta chiarezza quello che poi Mario Praz avrebbe definito il “cancro del particolato”, ossia il fatto che Roma veniva piano piano sommersa emissioni inquinanti delle autovetture. Anche Cheever se ne accorge e inserisce, nelle lettere e nei suoi diari, delle osservazioni in cui denuncia questo traffico degli anni ’50 che già sembra pazzesco. Io mi ricordo che da ragazzo (sono nato nel ’60), andavo in giro dappertutto con mio padre in macchina, si arrivava proprio sotto San Pietro e si facevano giri bellissimi della Roma Antica senza alcun problema. In realtà già allora i più illuminati cominciavano a vedere cosa stava accadendo».

«Raffinando un po’ di più la domanda, credi che questi cinque grandi protagonisti che tu hai selezionato oggi sarebbero ancora colpiti da Roma e la amerebbero? Ciò che ritenevano bello è ancora bello?».

«Questa è una bella domanda. Non so se l’amerebbero per com’è ora. Quello che ritenevano bello è ancora bello SE SI RIESCE a vederlo ancora, perché questo è il problema maggiore in questo momento a Roma:  riuscire a vedere “la grande bellezza” fra tante bruttezze».

«Uno Stendhal oppure un Gogol’ oggi cosa direbbero? Al di là dei monumenti, dei panorami, dei tramonti, persino dei gatti di Roma. Al di là di tutto questo che direbbero?».

«Stendhal è quello cronologicamente più lontano e avrebbe quindi le sue difficoltà. Gogol’ scrive delle osservazioni sull’aria di Roma come ad esempio l’esistenza di un’atmosfera particolare, questa luce con cui ti svegli al mattino che non puoi trovare in nessun’altra parte del mondo. Quella situazione comincia adesso piano piano a declinare, a mancare… Avrebbero tutti un approccio diverso, penso, senz’altro peggiore».

«In tal senso qual è il più ottimista dei cinque?».

«Forse, alla fine proprio Stendhal, anche perché per lui Roma non era la città preferita in Italia. Lui si sentiva milanese perché Milano aveva avuto Napoleone, aveva avuto i Francesi, gli sembrava più moderna, mentre Roma la vedeva più oscurantista, sotto la cappa del Vaticano. Lui non l’amava tantissimo, gli facevano per esempio orrore i castrati che cantavano per il Papa. La vive un po’ come una città arretrata. Quindi forse, in un certo senso, sarebbe quello che soffrirebbe di meno»

«Adesso una domanda contemporanea e poi una molto scomoda, vedi tu come te le vuoi giocare. Partiamo da quella attuale.

Ti invito, a questo punto, a pensare a degli autori o artisti contemporanei diciamo degli ultimi sessant’anni, con le stesse caratteristiche dei tuoi cinque personaggi, collocabili a Roma».

«La prima che mi viene in mente è una che ho escluso alla fine dal novero della short list: Ingeborg Bachmann, una poetessa austriaca, vissuta per tantissimi anni a Roma. È morta nel ’73 in circostanze da charire: un presunto suicidio per un eccesso di barbiturici. Proprio questa è la ragione per cui l’ho esclusa dal libro, avrei finito con lei e non volevo terminare con una nota troppo cupa. Poi per Roma sono passati tantissimi altri autori. Uno fra tutti è Anthony Burgess, per esempio, l’autore di “Arancia meccanica”, che vi ha trascorso parecchio tempo. Ha scritto anche un libro al riguardo. “Abba Abba” in cui parla di Keats e Belli. Anche lui sarebbe stato un altro possibile candidato. Un altro autore (stavolta francese) che ha scritto delle cose molto intelligenti sulla Città è stato Julien Gracq, autore del libro “Roma intorno ai sette Colli” in cui, a un certo punto, ne parla come dell’unica città che fa la sua autopsia in pubblico tutti i giorni. Ed è vero! Le rovine romane sono una specie di autopsia all’aperto, sotto gli occhi di tutti. Ci sarebbe veramente da tirarne fuori quanti ne vuoi, hai l’imbarazzo della scelta. Pensa anche a Evtušenko, poeta russo che è stato pochissimo a Roma, eppure vi ha scritto delle poesie bellissime su Roma e persino sul Festival di Castelporziano, oggetto tra l’altro del prossimo libro che pubblicherò con Bordeaux».

Veniamo ora alla domanda scomoda che  faccio spesso agli autori e che quindi, ovviamente, farò anche a te. Libri su Roma ce ne sono in abbondanza. Ugualmente esistono tantissimi testi su questi cinque grandi personaggi della letteratura, un buon numero anche a livello romanzato o rivisitato. Perché un lettore dovrebbe comprare questo tuo titolo? Perché si dovrebbe avvicinare? Qual è la differenza che puoi portare tu, come autore, rispetto a queste tematiche? Non lo domando come provocazione, ma come aspettativa necessaria».

«Io penso che debba scattare una scintilla di curiosità, comunque, per qualunque libro. Spero di essere riuscito a far scattare questa scintilla».

«In base a che cosa?».

«In base all’accostamento non banale, secondo me, tra Roma e questi cinque personaggi. È vero che su Stendhal a Roma molto è stato già detto. Anche su Gogol’ a Roma si è scritto molto perché vi ha passato i quattro anni più felici della sua vita, è documentato dappertutto, ma per esempio l’accostamento fra Malcolm Lawry e la Città è già più strano, perché ci ha passato solamente dieci giorni. Certamente è meno scontato. Lo stesso direi di Cheever, anche se a Roma è stato per un anno intero… nessuno normalmente lo mette in relazione con la nostra città. Si pensa sempre al Cheever autore di short stories ambientate nei “suburbs”, i sobborghi americani. Altri aspetti non emergno quasi mai».

«Pensi, a questo riguardo, che l’aspetto umano di questi, più o meno giovani autori, di cui mi hai parlato prima, possa fare la differenza rispetto ad altri libri? Il fatto che nonci sia lo Stendhal che tutti conoscono, ad esempio può fare la differenza? L’approccio più personale rispetto al (giovane) uomo più che al personaggio, il ragazzo e non l’artista che ancora non è… Tutta questa attenzione che hai voluto prestare può fare la differenza?

«Leggendo Quintetto Romano ti accorgerai che c’è tutta una parte biografica sul personaggio, l’uomo e l’artista, ma poi c’è un discorso più ampio sulle opere che ciascuno di loro ha pubblicato fino a quel momento, le polemiche letterarie in cui, in qualche modo, erano stati coinvolti… Quindi trovi anche l’aspetto che dovrebbe piacere allo studioso di letteratura e non solo all’amante della biografia, o anche del pettegolezzo, o ancora dell’aneddoto come dicevamo prima. Ciò che mi interessa è anche il momento in cui scatta la scintilla della creazione di un personaggio o di una storia e questo lo ritroverai poi in tutti e cinque».

«L’ultima cosa. Lo faccio presente tanto da autore, a mia volta, ma anchein qualità di recensore: quando si scrive, come dicevamo anche prima, c’è tanto di autobiografico, più o meno.

In questo caso c’è un po di te in tutti e cinque o c’è proprio un autore che, più di tutti, ti rispecchia?».

«Quando convivi per mesi con un autore, cerchi di leggere tutto quello che ha scritto e alla fine ti rendi conto che ci sono dei punti di contatto tra la tua traiettoria personale e la loro, anche nella visione  della vita. Magari non in toto. Ad esempio, la vita che faceva Lowry, non collima con la mia. Eravamo certamente più in sintonia quando avevo diciott’anni, ma adesso sono cambiato, sono cambiate parecchiue cose. Tuttavia questa sorta di biografia la fai quasi tua, malgrado tutto, perché ci sono degli aspetti in cui ti ritrovi e a quel punto scatta un tuo piccolo aneddoto personale che poi cerchi di nascondere, perché stai parlando di loro e non di te. Quindi c’è un po’ di me in tutti e cinque».

«OK, allora in chiusura d’intervista ti chiedo con quale, di  questi cinque, saresti andato volentieri a cena e con chi avresti litigato sicuramente?

«Difficile da dirsi… Credo che con Lowry fosse facile litigare. Pensa che il suo episodio si apre con una scazzottata in un bar: la prima persona che incontra appena entra, lui la prende a cazzotti… Quindi diciamo che con lui, probabilmente, sarebbe scattato il litigio. Era talmente ubriaco fradicio praticamente tutto il tempo che doveva essere davvero molto facile…

Invece, uno simpatico era Stendhal, torniamo sempre a lui. Perché era un grande falsario, come poi leggerai e quindi era divertente. Affabulatore, teneva banco…

Pare che anche Gogol’, a modo suo, quando voleva, fosse molto divertente, però Stendhal era proprio uno di quei grandi romantici amabili…».

«Quindi chiudo la nostra chiacchierata qui in fiera dicendoti: salutamelo per messaggio?»

«Sicuramente».

 

Ci alziamo dal tavolino sorridendo. Siamo in una sala al secondo piano della Nuvola di Fuksas, zona Eur in Roma. L’occasione è la Fiera della Piccola e Media Editoria. Il libro è “Quintetto romano” di Raoul Precht, Bordeaux Edizioni, ma il piacere è stato tutto nostro: mio, di Raoul, del buon Stendhal, del talentuoso Rolland, del rissoso Lowry, del mitico Gogol’ e del profondo Cheever. Ora spero, però, che il piacere di scoprire questo prestigioso cantastorie del vecchio continente e il suo romanzo in cinque racconti sarà anche il Vostro.

 

Prima foto. In alto a sinistra: © Bordeaux Edizioni. Tutti i diritti riservati

Seconda foto. Al centro a destra © Francesco Bordi. Tutti i diritti riservati

Terza foto. In basso a sinistra: Materiale stampa Più Libri Più Liberi © Tutti i diritti riservati

 

 

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